mercoledì 16 febbraio 2011

di bambini, ospedali e genitori..

Negli anni ’50 numerosi studi di psicologi e pediatri, iniziarono a evidenziare gli effetti dannosi che l’ospedalizzazione aveva sul benessere psico-affettivo del bambino, soprattutto a causa della separazione del piccolo dalla famiglia, che all’epoca era prassi in quasi tutti gli ospedali.
. Nel 1958 questi studi trovarono voce in un saggio, “Bambini in ospedale”, di un pediatra, James Robertson: nel suo lavoro, Robertson dimostrava, sulla base di verifiche sperimentali, che l’ospedalizzazione costituisce un trauma per il bambino e che la lontananza dai suoi genitori è fonte di sofferenza.

Secondo gli operatori dell’epoca, la lontananza dalla famiglia rendeva il bambino più tranquillo, Robertson chiarì che era una serenità solo apparente, perché alla disperazione e irrequietezza per l’abbandono era subentrata l’apatia.

Era uno studio all’avanguardia, che per la prima volta rendeva l’opinione pubblica consapevole di questo, considerando anche che l’OMS ancora nel 1960 definiva la Pediatria “un’applicazione della medicina generale ai bambini”, tralasciando quindi ogni differenza tra i bisogni psicologici dell’infanzia e dell’età adulta.

Proprio per questo motivo, non si sentiva il bisogno di elaborare uno specifico diritto dei bambini in ospedale: gli studi di Robertson segnarono la svolta da questo punto di vista, e nel 1959 la pubblicazione del rapporto Platt (Platt’s report) confermò le affermazioni di Robertson.


Il rapporto Platt era uno studio prodotto da un Comitato di medici e psicologi guidati dal chirurgo Harry Platt, nominato dal Ministero della Sanità inglese, intitolato “The Welfare of Children in Hospital”, che si poneva l’obiettivo di trattare aspetti non medici dell’assistenza dei bambini da 0 a 16 anni.

Come detto, rafforzava le teorie di Robertson e nello stesso tempo, forniva suggerimenti per ridurre il disagio del bambino in ospedale: in primo luogo, l’abolizione degli orari di visita nei reparti di pediatria, la possibilità per i genitori di pernottare in ospedale e di essere coinvolti nella cura dei figlio; inoltre, la creazione di ambienti più accoglienti, con spazi per il gioco e l’incontro con altri bambini, una maggiore attenzione alla psicologia del piccolo e dei genitori, una migliore comunicazione.

Se, però, i primi punti erano facilmente attuabili, gli ultimi apparivano più impegnativi, in quanto comportavano modifiche sia nella progettazione dei reparti, sia nel piano di studi e nella mentalità degli operatori sanitari.

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