come promesso, donna mimma continua..(se vi siete persi la prima parte eccola)
Pajono fatte, quelle mani, per calcare nello stampo la cera di cui sono formati i Bambini Gesù che in ogni chiesa si portano su l’altare in un canestrino imbottito di raso celeste la notte di Natale. Sente donna Mimma la santità del suo ufficio, quanta religione sia nell’atto della nascita, e agli occhi dei bimbi lo copre con tutti i veli del pudore; e anche parlandone coi grandi non adopera mai una parola, che muova o diradi quei veli; e ne parla con gli occhi bassi e il meno che può. Sa che non è sempre lieto, che spesso anzi è così triste il suo ufficio d’accogliere nella vita tanti esserini che piangono appena vi traggono il primo respiro. Può essere una festa il bimbo ch’ella porta in una casa di signori; anche per il bimbo, sì; benché non sempre neanche lì! Ma portarli – e tanti, tanti – nelle case dei poveri... Gli piange il cuore. Ma è lei sola a esercitare, da circa trentacinque anni, quest’ufficio nel paesello. O, per dir meglio, era lei sola, fino a. jeri.
Ora è venuta dal continente una smorfiosetta di vent’anni, piemontesa; gonna corta, gialla, giacchetto verde; come un maschiotto, le mani in tasca: sorella ancora nubile d’un impiegato di dogana. Diplomata dalla R. Università di Torino. Roba da farsi la croce a due mani, Signore Iddio, una ragazza ancora senza mondo, mettersi a una simile professione! E bisogna vedere con quale sfacciataggine: per miracolo, quella sua professione, non se la porta scritta in fronte! Una ragazza! una ragazza, che di queste cose... Dio, che vergogna! E dove siamo?
Donna Mimma non se ne sa dar pace. Volta la faccia, si ripara gli occhi con la mano appena la vede passare sculettando per la piazza, a testa alta, le mani in tasca, la piuma bianca ritta al vento sul cappellino di velluto. E che strepito fanno quei tacchetti insolenti sul lastricato della piazza: – Passo io! passo io!
Non è donna quella: una diavola è! Non può essere creatura di Dio, quella!
– Come? la tabella?
Ah sì? ha fatto appendere la tabella col nome e la professione sul porticino di casa? E si chiama? Elvira... come? signorina Elvira Mosti? Ci sta scritto signorina? E che vuol dire diplomata? Ah, la patente. La vergogna patentata. Dio, Dio, si può credere una cosa simile? E chi la chiamerà quella sfacciata? Ma che esperienza poi, che esperienza può aver lei, se ancora... in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. S’hanno da vedere di queste cose ai giorni nostri? in un paesello come il nostro? Vih... vih... vih...
E donna Mimma scuote in aria le manine coi mezzi guanti di filo come se si vedesse lingueggiar davanti le fiamme dell’inferno.
– Nossignora, grazie, che caffè, signora mia! acqua, un sorso d’acqua mi faccia portare; sono tutta sconcertata! – dice nelle case delle clienti, da cui di tanto in tanto si reca a visita, o a fare, com’ella dice, «un’affacciata», per sapere... no? niente? Lasciamo fare a Dio, signora mia, ringraziato sia sempre in cielo e in terra!
Se n’è fatta quasi una fissazione; non perché tema per sé, che le signore le abbiano a fare un torto per quella lì; figurarsi se può temere una tal cosa conoscendo che signore sono, col timore di Dio, con l’educazione del paese e il rispetto delle cose sante! Neanche per sogno...
– Ma dico, dico, oh Vergine Maria, per la cosa in sé... questo scandalo... una ragazzaccia... Dicono che parla come un carabiniere... che tutte le parolacce le dice chiare, come se fosse una cosa naturale...
È tanto compresa della mostruosità dello scandalo, che non s’accorge dell’impaccio afflitto con cui la guardano le signore. Pare che abbiano da dirle qualche cosa e non ne trovino il coraggio.
Oggi, il medico condotto s’è voltato di là, vedendola passare. Non l’ha vista? Ma sì, che l’ha vista! L’ha vista e s’è voltato. Perché?
Viene a sapere, poco dopo, che quella svergognata lì è andata a trovarlo a casa, col fratello. Certo per raccomandarsi. Chi sa che moine gli avrà fatto, come le sanno fare codeste forestieracce sbandite che nelle grandi città del Continente hanno perduto il santo rossore della faccia; ed ecco che questo rimbambito di medico... Il diploma? E che c’entra il diploma? Ah sì, difatti, per il diploma! Ma via, che non si sanno queste cose? Due smorfiette, due carezzine, e come la paglia pigliano fuoco, gli ominacci; anche i vecchi adesso, senza timor di Dio! Che fa il diploma? che c’entra? Esperienza ci vuole, esperienza.
– Eh, ma anche il diploma, donna Mimma, – le risponde sospirando il farmacista, col quale, passando, s’è lagnata del voltafaccia del medico.
– E io che ho diploma forse? – esclama allora donna Mimma, sorridendo e giungendo per le punte delle dita le due manine coi mezzi guanti di filo. – E sono già trentacinque anni, trentacinque, che tutti quanti siete qua, e pure voi, don Sarino, vi ho portati io, con la grazia di Dio, figliuoli miei; che n’ho fatti di viaggi a Palermo! Ecco, ecco, guardate qua!
E donna Mimma si china a prendere tra quelle due manine che quasi non pajono, ma che pure hanno tanta forza, un bel bimbone della strada, che s’è fermato davanti la farmacia, e lo leva alto, nel sole.
– Anche questo! E quanti ne vedete, tutti io! Sono andata a comperarvi tutti io, a Palermo, senza diploma! A che serve il diploma?
Il giovane farmacista sorride.
– Va bene, donna Mimma, sì... voi... l’esperienza, certo... ma...
E la guarda afflitto e impacciato e neanche lui ha il coraggio di farle intravvedere la minaccia che le pende sul capo.
Finché dalla Prefettura del capoluogo le arriva una carta con tanto di stemma e di bollo, mezza stampata e mezza scritta a mano, nella quale ella non sa legger bene, ma indovina che si parla del diploma che non ha, e che ai sensi degli articoli tali e tali... È ancora dietro a decifrarla, quella carta, che una guardia la viene a invitare a nome del sindaco.
– La moglie? Così presto? – domanda donna Mimma, contrariata.
– No, al municipio, – risponde la guardia – per una comunicazione.
Donna Mimma s’acciglia:
– A me? per questa carta?
La guardia si stringe nelle spalle:
– Io non so; venite e saprete.
Donna Mimma va; e, al municipio, trova il sindaco, tutto imbarazzato. Anche lui è stato comperato a Palermo da donna Mimma; e anche due figliuoli donna Mimma è andata a comperare per lui a Palermo e presto per un terzo dovrebbe mettersi in viaggio con la lettiga; ma...
– Ecco qua, donna Mimma! Vedete? Un’altra carta anche a noi, dalla Prefettura. Per voi, sì. E non c’è nulla da fare, purtroppo. Vi s’interdice l’esercizio della professione.
– A me?
– A voi: perché non avete il diploma, cara donna Mimma! La legge.
– Ma che legge? – esclama donna Mimma, che non ha più una goccia di sangue nelle vene. – Legge nuova?
– Non nuova, no! Ma noi qua, c’eravate voi sola, da tant’anni; vi conoscevamo; vi volevamo bene; avevamo tutta la fiducia in voi, e abbiamo perciò lasciato correre; ma siamo in contravvenzione anche noi, donna Mimma! Queste maledette formalità, capite? Finché c’eravate voi sola... Ma ora è venuta quella là; ha saputo che voi non avete il diploma; e visto che qua non è chiamata da nessuno, capite? ha fatto reclamo alla Prefettura, e voi non potete più esercitare, o dovete andare a Palermo, davvero questa volta! all’Università, per prendere il diploma anche voi, come quella.
– Io? a Palermo? alla mia età? a cinquantasei anni? dopo trentacinque anni di professione? mi fanno questo affronto? io, il diploma? Un’intera popolazione... Ma come? c’è bisogno di diploma? di saper leggere e scrivere, per queste cose? Io so leggere appena! E a Palermo, io che non mi sono mai mossa di qua? Io mi ci perdo! Alla mia età? Per quella smorfiosa lì, che la voglio vedere, con tutto il suo diploma... Vuole competere con me? E che hanno da insegnare a me, che li fascio e li sfascio tutti quanti, i meglio professori, dopo trentacinque anni di professione? Debbo andare a Palermo davvero? Come? per due anni?
Non la finisce più donna Mimma: un torrente di lagrime irose, disperate, tra un precipizio di domande saltanti, balzanti. Il sindaco, dolente, vorrebbe arrestar quell’impeto; un po’ lo lascia sfogare; di nuovo si prova ad arrestarlo; – due anni passano presto; sì, è duro, certo; ma che insegnare! no! pro forma per avere quel pezzo di carta! per non darla vinta a questa ragazzaccia... – Poi, accompagnandola fino alla soglia dell’uscio, battendole una mano dietro le spalle, come un buon figliuolo, per esortarla a far buon animo, cerca di farla sorridere: via... via... come si smarrirebbe a Palermo, lei, che non passa giorno, ci va tre e quattro volte?
S’è tirato lo scialle nero sul fazzoletto celeste, donna Mimma e le sue manine stringono, di sotto, quello scialle nero sul volto per nascondere le lagrime. Bimbi, quel fazzoletto di seta celeste! – La santa poesia della vostra nascita, ecco, ha preso il lutto: se ne va a Palermo, senza lettiga bianca, a studiar meèutica, e la sepsi e l’antisepsi, l’estremo cefalico, l’estremo pelvi–podalico... Così vuole la legge. Donna Mimma piange; non se ne può consolare: sa leggere appena; si smarrirà tra l’irta scienza di quei dotti professori, là, a Palermo, dove ella tante volte è andata con la poesia della sua lettiga bianca.
– Signora mia, signora mia...
Un pianto, un pianto che spezza il cuore, presso ciascuna delle sue clienti, da cui va a licenziarsi, prima di partire. E in ogni casa, si china con le piccole mani tremanti (oh sì, ora le cava fuori senza più ritegno) a carezzar la testina bionda o bruna dei bimbi, e lascia tra quei riccioli, insieme coi baci, cader le lagrime, inconsolabilmente.
– Vado a Palermo... vado a Palermo.
E i bimbi, sbigottiti, la guardano, e non comprendono perché pianga tanto, questa volta, per andare a Palermo. Pensano che forse è una sciagura anche per loro, per tutti i bimbi che sono ancora là, da comperare.
Dicono le mamme:
– Ma noi v’aspetteremo!
Donna Mimma le guarda con gli occhi lagrimosi, tentenna il capo. Come può farsi quest’inganno pietoso, lei che sa bene com’è la vita?
– Signora mia, due anni?
E se ne parte col cuore spezzato, tirandosi lo scialle nero sul fazzoletto celeste (continua)..
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